Per tutta la vita sono stata in qualche modo diversa dalla stragrande maggioranza di chi mi circondasse, e lo dico senza compiacimento: è un fardello che non auguro a nessuno. Vivere così è estenuante, e però è anche vero che non potrei neanche volendo adeguarmi al pensiero comune, principalmente perché non trovo alcuna rassicurazione nell’allineamento.
Spesso mi sono chiesta per quale motivo l’arte debba sempre percolare dalla sofferenza, e mi sono illusa di poter fare in qualche modo arte che scaturisse (e quindi in qualche modo incutesse) serenità, pace, gioia. Leggevo un paio di giorni fa un passo di un vecchio libro di Jodorowski, Psicomagia, nel quale lui spiegava quanto fosse importante riuscire a trovare dentro di sé uno spazio impersonale dal quale potesse prescrivere gli atti psicomagici direttamente dal suo inconscio, in connessione con l’inconscio della persona che lo consultava.
Cito: “(…) quando prescrivo un atto, quando svolgo il mio ruolo di psicomago e cado in trance o in autoipnosi – chiamala come vuoi – a parlare non è il mio piccolo io. Ho la sensazione che quello che sto per dire scaturisca da luoghi profondi.”
In effetti è solo quando riesci a staccarti da te stesso e a diventare una specie di tramite con l’energia che circola ovunque, come il vento, che crei qualcosa di veramente forte. Almeno nel mio caso. Ho sempre visto l’artista come una sorta di interprete, che con risultati alterni, a seconda di quanto riesce ad annullare se stesso, traduce l’energia in immagini (o suoni. O danza. O altro).
E la massima espressione dell’arte la vedo nella creazione di un’opera che sia come uno specchio, in un certo senso neutra, nella quale ognuno possa guardare se stesso. Senza suggerire o imporre un percorso o una lettura. Un abisso, un buco nero che tocchi direttamente l’anima, che trascenda completamente l’intelletto, il più grande ostacolo dell’arte.
In piena contraddizione con tutto ciò, in questi ultimi due anni, da quando ho iniziato a disegnare sulle stoffe con ago e filo, mi sono proposta di trasmettere attraverso ciò che creavo, l’equilibrio che credevo di aver raggiunto nella mia vita, dovuto principalmente all’essere riuscita a rimanere libera da ogni coercizione, limpida e coerente nelle mie scelte, all’aver studiato tanto di tutto, e all’evoluzione che ne è derivata.
Ho cominciato con questi disegni delicati, quasi impercettibili, vaporosi, colorati. In capo a qualche mese sono diventati aggrovigliati, cupi, rugosi. Pieni di forza, di rabbia, di marte in leone, di lotta per il territorio, di combatti o fuggi. Ho sfilato ogni singolo filo colorato e sostituito con colori terrosi, acidi, metallici, e ho aggiunto altri due fili al primo, uno bianco, ricamato con un punto diverso, che tira e buca la stoffa. L’altro, un colore neutro, sempre lo stesso, l’altro fratello/figlio, la triade nella quale sono cresciuta, troppo presto. Ma avevo già le spalle larghe, presto corredate da una robusta costellazione megalomane. E quindi.
Alla fine è il dolore la porta tra l’energia e la creazione, e siccome non c’è nessuno di noi che non lo provi, per quanto possa avere una vita felice, tanto vale scenderci a patti e amare anche tutta la sofferenza che abbiamo vissuto, che viviamo. La moneta della famosa parabola va usata, non nascosta sottoterra, non sprecata.
Perché la differenza tra paradiso e inferno è quando si arriva alla fine della propria vita e guardandosi indietro si può dire ho fatto tutto quello che potevo fare perché la mia vita avesse un senso, ho scalciato e combattuto, ho urlato e pianto, ho aiutato, amato, sparso ideali, accolto, gioito e sofferto come un cane. In una parola, vissuto.
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