Alla fine degli anni ’90 seguii per qualche tempo una compagnia di danzatori piuttosto particolare; realizzai per loro il logo, la grafica delle locandine e altre varie ed eventuali, e occasionalmente scattavo qualche foto durante le prove e le rappresentazioni. Mi capitava spesso di finire la serata guardando i loro spettacoli, che avevano una caratteristica che mi metteva in difficoltà.

A ghost story

Il coreografo, un italiano di Sora, nel Frosinate, che adesso vive e lavora tra Roma e New York, era molto orientato alla ricerca e alla sperimentazione, e portava avanti una sua poetica che mi incuriosiva e mi faceva sentire profondamente a disagio. Il protagonista dei suoi spettacoli aveva sempre qualche menomazione fisica, si muoveva sgraziatamente o comunque danzava in modo goffo. Questa cosa stonava con la perfezione e la bellezza della musica e della danza, e creava una distonia che mi toglieva il fiato.

Era quel tipo di sensazione che gli empatici provano quando qualcuno fa qualcosa di imbarazzante; non sai se distogliere lo sguardo, provare ad aiutare chi ti sta davanti o cercare di attirare l’attenzione dei presenti perché quello che sta succedendo passi in qualche modo inosservato. O nascondere la testa in un cuscino sperando che finisca prima possibile.

In qualche modo mi riportava anche a quando da bambina a Napoli, per mano a mia madre, sempre di fretta e preoccupata, passavo davanti a quelle finestre rasoterra coperte con reti metalliche che mandavano odore di muschio, muffa e polvere. Su di me la debolezza, il brutto, lo strano, l’osceno, lo storpio, il fastidioso, lo scoordinato, il reietto, hanno sempre avuto un fascino potente. Gli uomini con visi strani, irregolari, i nani, la deformità fisica, tutto questo in qualche modo provoca in me una forte repulsione e quindi mi attrae irresistibilmente.

Solo adesso comincio a capire perché nonostante il nervosismo che provavo durante quegli spettacoli rimanessi inchiodata alla sedia e avrei guardato e riguardato quelle scene mille volte; risuonavano in me come un’eco. Si trattava di un informazione che mi mancava, senza la quale mi era impossibile creare: la consapevolezza che non c’è poesia, e quindi non c’è arte, nella perfezione. Ho dovuto leggerlo nero su bianco per averne la piena coscienza.

Ormai sono più di due anni che ho iniziato con il ricamo il cammino sulla strada del non-controllo, dell’organico nel senso Cronenberghiano del termine, dell’ignorare volutamente la richiesta del mondo; percorso per me complicato da seguire, per tanti motivi dovuti ai miei pianeti e alla mia infanzia. Faccio fatica a a essere un canale neutro, in grado di tradurre l’energia in illustrazioni ricamate lasciandola più pulita e vera possibile, incontaminata; ci combatto da sempre. Anche perché “per mantenersi in questo stato occorre non avere interessi da difendere, paure da sedare, bisogni da soddisfare”, come scriveva Elemire Zolla.

Biblioteca de babel

La mia scelta di ritrarre la natura, quando non cerco proprio l’astratto, risale anche a questo. Una pianta, un animale, il vento, il mare, le nuvole non inseguono la bellezza: esistono, e tanto basta. Sono furiosi, disordinati, imprevedibili, disinteressati al parere altrui. O incredibilmente simmetrici, ipnoticamente perfetti, senza volerlo essere, solo perché tutto esiste, come nella biblioteca di Borges, e se poi funziona, vive e si replica, magari saltando generazioni, o facendosi largo con la forza della disperazione.

Alla fine questo è l’unico modo per me di creare opere che non mi si ritorcano contro, che possa guardare senza odiarle, che non riflettano me e solo me, che non siano un’espressione narcisistica, che mi diano pace, e non mi innervosiscano al punto da doverle nascondere o distruggere. Adesso tutto questo che prima intuivo solamente, è davanti ai miei occhi, stampato nel mio cuore, mi apre nuove prospettive; come essere sullo scoglio a picco sul mare e respirare finalmente a pieni polmoni. Mi aspetto meraviglie (e nuove sfide) <3