Camminiamo arrancando sulla sabbia bollente da quella che mi pare un’ora; lei anziana, pesante e troppo vestita, spettinata e con le unghie dei piedi lunghe come artigli, affondate in un paio di scarpe da tennis a fiori, senza alcun motivo al mondo.
Non posso credere che gli ombrelloni di paglia siano così lontani. Lei comincia a protestare, prima debolmente, poi sconfortata dall’ingiustizia che sta subendo.
E pretende di camminare sulla riva, su quest’isola dalle onde ingestibili, e l’evidenza che scarpe e pantaloni si inzupperanno ha su di lei lo stesso effetto che avrebbe su un bambino di due anni. Mi convinco che sia la cosa migliore, che almeno se si bagna non le verrà un infarto sulla spiaggia. Scelgo stupidamente tra due mali e invece dovrei arrendermi, fermarmi e aspettare. Tutte cose che non ho ancora avuto tempo di imparare a fare.
Una signora la guarda con apprensione e le chiede se vuole sedersi e riposare, le offre la sua sdraio. Ero abituata a vederla infastidita dall’invadenza della gente. Adesso invece annuisce ma continua a camminare, zoppicando nello strano modo di chi ha le ossa delle gambe arcuate e mi sento come se mi stessero strappando il cuore dal petto. Perché sapevo fin da bambina che lei non avrebbe mai retto l’incedere del tempo. Troppo sensibile, troppo indignata, troppo impaurita, troppo amante della giustizia come valore assoluto.
Un vetro fragilissimo strabordante vita infuocata, che marcia incurante del fatto che basta un soffio per frantumarlo. Mio padre, quando ancora era un uomo che lei ammirava, le aveva promesso una rosa al giorno e le aveva regalato una medaglietta d’oro che lei portava sempre al collo, anche quando noi bambini lo vedevamo solo la domenica, a pranzo alla Pagliarella, o facendo una lunga passeggiata a piedi per arrivare dalla nonna.
Citofonavamo ad ogni palazzo e scappavamo ridendo e lui non era l’avvocato importante che tutti conoscevano. Era un uomo che credeva ancora che bastasse amare ed essere riamato per essere felice, e invece no. E lei era così giovane e invisa dalla famiglia nobile del rampollo adultero. Come aveva osato. Era così bello e macabro e sorrideva. E diceva che tre era il numero perfetto, tenendoci in braccio a due alla volta nell’ingresso della casa dove lui non viveva. I suoi passi sulle scale, da dietro la porta di legno.
E l’avevo vista ogni giorno ingoiare questo boccone indigeribile di non poter controllare la sua vita, e non arrendersi mai, e diventare sempre più ansiosa e incredula e poi arrabbiata e alla fine rassegnata. Vedevo con chiarezza l’inevitabilità del suo destino e ne ero terrificata. Ed era troppo testarda e materna per dare ascolto a una ragazzina, e io troppo ferita dalle loro bugie, troppo occupata a tranciarmi la zampa per fuggire dalla tagliola.
Ed eccola adesso, con gli occhi stupiti di una bimba, come un treno cieco che corre a cento all’ora contro un muro, e tutto ciò che posso fare è inchinarmi al suo destino, rispettare ciò che è, amarla senza riserve e sanguinare profusamente, e finalmente siamo arrivate agli ombrelloni di paglia, la faccio sedere e le tolgo le scarpe, e lei vede i miei fratelli e comincia a ridere senza riuscire a fermarsi, a singhiozzi, con le lacrime agli occhi, per un tempo interminabile.
Amarla è devastante, insostenibile, un abisso di tenerezza e senso materno che una figlia non deve avere per una madre, non è sano, non è giusto, e allo stesso tempo è impossibile frenare l’impeto di ciò che provo per lei, così enorme da non poterlo contenere, così forte che mi avrebbe uccisa se le fossi rimasta accanto. Ecco perché lui non volle parlarle poco prima di lasciare questa terra. Perché lei era Dio.
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