Gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio quasi tutto. Dal post dell’uomo elefante e della mia prima allora imminente esposizione il mio modo di fare arte si è evoluto profondamente.
Ho imparato che nell’arte contemporanea il punto focale è il messaggio e non l’opera in sé, alla quale, da buon ex grafico, avevo sempre dato la priorità. Ho ancora la strisciante sensazione che un lavoro esteticamente bello sia penalizzata da questo punto di vista, ma è presto per dirlo, ho ancora molto da apprendere.
Ho capito l’importanza di raccontare le motivazioni e le intenzioni che ho, a prescindere da quelle imponderabili, quando divento il tramite di un’energia che scorre dentro di me senza che io possa fare nulla per impedirlo — e anzi meglio lasciarla fare se voglio sopravvivere — e ho riscritto il mio artist statement. Che alla fine dice che non è possibile avere una vita degna di questo nome se si è in un continuo stato di paura, se non si è disposti a rischiare ogni singola cosa che si ha e che si è.
In un momento storico nel quale siamo bombardati da minacce di ogni tipo, e nel quale il come è passato a miglior vita sostituito da un cosa senza scrupoli, il coraggio di vivere è merce rara e controversa e ti può far sentire molto solo. Ogni cosa che faccio affronta una diversa sfumatura di questa necessità per me fondamentale; tutto il mio lavoro si basa sul mostrare l’enorme sollievo che deriva dal riuscire a ignorare la mente e attingere così alla nostra vera essenza, animale e intuitiva, libera, invincibile e indistruttibile, eterna.
Adesso sulla pagina dei lavori ogni opera ha la sua sinossi, la trascrizione imperfetta dell’esigenza dalla quale ognuna di esse è scaturita; il messaggio di cui dicevo poc’anzi, modellabile sul sentito personale del singolo individuo. Cosa dunque non è arte? Ciò che lascia indifferenti, ciò che non risveglia alcuna emozione.
E sono ripartita da qui.
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